Suspiria

Un film magmatico, ambizioso, eccessivo, strabordante a tratti magnifico che però manca di sano furore.

di 09/01/2019 ARTE E SPETTACOLO
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Nell’approcciarsi al capolavoro di Dario Argento, Luca Guadagnino ha scelto l’unica via possibile e sensata.

Utilizzare il film originale come (pre)testo sul quale imbastire la propria personalissima visione.

Pretesto inteso sia come, appunto, testo preesistente sul quale edificare qualcosa di nuovo e diverso sia come scusa per dare sfogo al proprio mondo.

Tuttavia il nuovo Suspiria è, al tempo stesso, intriso di suggestioni provenienti dalla filmografia di Argento. Le ragazze e le streghe che vagano ridendo per le vie di Berlino sembrano uscite da La terza madre, il quadro che ritrae Madame Blanc ed Helena Markos (interpretate entrambe da Tilda Swinton) richiama quello del corridoio di Profondo rosso ed il modo in cui Sara (Mia Goth) scopre l’antro segreto delle streghe, in un meraviglioso gioco meta testuale, può essere compreso solo se si è visto il Suspiria originale visto che la spiegazione di come fa sta in quel film e non in questo.

Su questo nucleo Guadagnino ha costruito un’opera magmatica, eccessiva, strabordante che gli sfugge continuamente di mano, che forse neanche riesce a controllare come si deve perdendosi in mille rivoli, un’opera che cade e si frantuma sotto il suo stesso peso rivelando i propri limiti, eppure fieramente ambiziosa e ciò non può che renderci felici.

Non bisogna però pensare che la quantità di temi affrontati e messi in campo dal regista dia luogo ad uno sterile esercizio intellettuale, sebbene spesso Guadagnino si affidi più ai dialoghi che alla forza delle immagini, nel suo film tutto è letterale, messo in bella mostra senza inutili metafore.

Prendiamo ad esempio l’ambientazione, che, a nostro avviso, è la parte migliore del film.

Guadagnino sposta l’azione nella Berlino del 1977, non a caso lo stesso anno in cui fu realizzato il film originale.

La ricostruzione di quel periodo storico è qualcosa di semplicemente miracoloso. Il regista riesce a restituire alla perfezione, in una meticolosità straordinaria, maniacale ed affascinate, il clima di una città dominata da un cielo grigio perennemente piovoso, le atmosfere tetre e squadrate delle architetture ora decadenti ora rigidamente geometriche figlie del razionalismo (la scuola di danza è pura magia visiva ed è l’unica alternativa visiva possibile al mondo creato a suo tempo da Argento).

In questo contesto il terrorismo, che pure premeva ai lati ed esternamente rispetto al lungometraggio del ’77 si fa esso stesso protagonista.

Siamo in una città divisa in due (come la congrega delle streghe) attraversata da nuovi orrori.

Questi orrori sono figli, come ci spiega lo stesso Guadagnino, del potere maschile al quale, dalla notte dei tempi, si contrappone quello materno delle donne bollate come streghe.

Al tempo stesso, in una storia ciclica che pure non si ripete mai uguale a sé stessa, le bombe terroriste lacerano la città così come anni prima aveva fatto il potere nazista.

Si tratta anche in questo caso di una suggestione ripresa dal film di Argento che qui però viene ampliata.

Testimone di quel passato è il Dottor Klemperer (Lutz Ebersdorf), costretto ad indagare in quanto chiamato in causa, all’inizio del film, da Patricia (Chloë Grace Moretz).

Klemperer porta su di sé un senso di colpa, che è chiaramente quello di un intero popolo, figlio del fatto che a suo tempo non sia riuscito a salvare la sua amata moglie.

Dunque il terrorismo oggi, come l’olocausto ieri. Un senso di colpa generato dagli orrori scatenati da un potere maschile al quale si contrappone, all’ombra ma in piena luce, il potere materno di una congrega di streghe.

Ed ancora la danza, e quindi l’arte, come coreografia dietro la quale mascherare i propri rituali salvo poi metterli in scena di fronte ad un pubblico (che poi siamo anche noi spettatori della sala cinematografica come spiega la scena dopo i titoli di coda), tra corde rosso sangue che imprigionano letteralmente quelle ballerine schiave del potere magico.

C’è da perderci la testa a seguire le mille suggestioni di cui questo film è carico e noi non staremo neanche ad inseguirle/catalogarle tutte.

Tutto bene dunque?

Non proprio perché in Suspiria c’è anche un altro film ed è quello che narra la storia di Susie (Dakota Johnson) giunta dall’America per coronare il suo sogno di ballerina.

Presentata come perfetta vittima sacrificale Susie nel corso del film subirà una vera mutazione che a posteriore getta una nuova chiave di lettura ad intere parti del film altrimenti inspiegabili (ad esempio perché non interviene quando vede il destino riservato ai due poliziotti?).

Proprio il suo personaggio rappresenta uno dei capovolgimenti più geniali del film rispetto al suo modello.

Ci prendiamo il rischio di rivelare troppo, siete avvisati, ma Guadagnino cambia completamente la figura della Mater Suspiriorum ed alla fine la trasforma, appunto, in un personaggio materno, capace di donare l’oblio e quindi liberare dal peso delle colpe e di donare l’eterno riposo. Una figura di amore invece che di cieca vendetta.

Tuttavia, come sopra accennato, c’è qualcosa che non quadra nell’opera di Guadagnino.

Il suo Suspiria ci appare come un film realizzato con la testa più che con la pancia e questo, a nostro avviso, per un horror è imperdonabile.

L’obiezione più sensata sarebbe cercare di sostenere che questo non è un horror, ma noi siamo completamente contrari a questa lettura.

Il nuovo Suspiria per noi è un horror ma manca completamente di quel furore che rende grandi i film di tale genere.

Non ci riferiamo solo al furore che metteva in campo a suo tempo Argento al massimo della sua libertà creativa, divorato dai propri demoni interni (per maggiori informazioni si legga l’autobiografia Paura).

È infatti ovvio che Guadagnino non sia un regista di horror. Quindi gli esempi vanno ricercati altrove, in quelle opere horror realizzati da registi estranei al genere.

Ed è in questo capo che Guadagnino fallisce miseramente.

Il suo modo di fare cinema, sospeso tra tentazioni di video arte ed eccessi grandguignoleschi può piacere o meno (a noi sostanzialmente non convince ma è solo un’opinione personale), il punto è che nel suo film non c’è mai un momento che scuota dal profondo lo spettatore insinuandosi dentro e sotto la sua pelle.

Probabilmente l’intento era un altro, ovvero creare un’atmosfera di plumbeo grigiore che ci imprigionasse, ma neanche questo riesce a fare.

Ma per fare un esempio basti pensare alla doppia danza, quella tra Susie da una parte ed il corpo martoriato dall’altra di Olga. Vedendola ci è venuta in mente l’indimenticabile sequenza di possessione di Isabelle Adjani in Possession di Żuławski (https://vimeo.com/129275251) film da noi scelto proprio perché opera di un regista non di genere.

Ecco a Guadagnino manca il furore di scene come queste, il suo rimane un cinema rassicurante e borghese e si sente come la paura di abbandonarsi completamente all’inconscio, liberare la propria parte nascosta e dare vita a qualcosa che scuota veramente lo spettatore.

Insomma, per realizzare un horror potente bisogna avere dei demoni dentro di sé.

Guadagnino, invece, evidentemente sta bene. E noi siamo contenti per lui.

 

EMILIANO BAGLIO

 


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